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L'IMPERCETTIBILE MONDO DEL SUONO

L’essere umano è fisicamente incapace di percepire una buona parte dello spettro sonoro conosciuto. In altre parole, ci sono suoni che nessuno di noi può udire. I Veda lanciano quindi una sfida: se il nostro udito è inidoneo a captare tutte le vibrazioni sonore del mondo materiale, come può accedere alle sonorità esistenti oltre la materia? Nonostante la sua inabilità di percepire certe frequenze –materiali o spirituali che siano– si deve comunque riconoscere che il nostro udito funziona meglio della nostra vista. Lo ha spiegato bene la psicologa francese Katherine Le Mée:

“L’udito è connesso al cuore, ed è per questa ragione che la musica e i suoni ci toccano più direttamente e profondamente delle immagini. È un fatto scientificamente provato che il nostro apparato visivo ha una frequenza di poco inferiore a un’ottava, dall'infrarosso all'ultravioletto, mentre quello uditivo ne ha una di circa otto ottave, approssimativamente dai 20 ai 20.000 hertz (numero di vibrazioni al secondo).

Percepiamo le frequenze sonore sotto forma di toni e le frequenze visive sotto forma di colori. Le frequenze visive sono molto più alte di quelle sonore, e si sa che più alte sono le frequenze, minore è la loro capacità di penetrazione di un dato materiale. Per esempio, un foglio di cartone basta a proteggerci dalla luce, ma per bloccare un suono è necessaria una parete molto spessa. Siamo molto sensibili al suono, che penetra in noi non solo attraverso gli orecchi, ma anche attraverso la pelle, e influisce sui nostri organi.” *

La scienza dimostra quindi che i sensi del corpo umano sono imperfetti e limitati, e che esiste un mondo di esperienze sensoriali inaccessibile alla nostra percezione. La letteratura vaishnava conferma queste limitazioni visive e uditive, e illustra una gamma d’ineffabili sonorità spirituali.

 

 

IL POTERE DEI NOMI DIVINI

I suoni spirituali più acclamati nei testi vedici sono i nomi di Dio. Si dice che abbiano massimi poteri, diversamente da altre vibrazioni sonore all’interno o al di là dell’universo. Gli scritti vaishnava spiegano che proprio come si sveglia una persona addormentata producendo un suono o chiamando il suo nome, così l’uomo può risvegliarsi dalla sua condizione di torpore materiale invocando il nome di Dio. Sta di fatto che le maggiori tradizioni religiose del mondo convengono su un punto: è pronunciando il nome di Dio che si ottengono l’illuminazione e la libertà dal ciclo di nascita e morte.

Maometto consigliava: “Glorificate il nome del vostro Signore, l’Altissimo.” (Corano 87.2). San Paolo dichiarava: “Chiunque invochi il nome del Signore sarà salvato.” (Romani 10.13). Buddha affermava: “Tutti coloro che invocano sinceramente il mio nome verranno a me dopo la morte, e io li condurrò in paradiso.” (Voti di Amida Buddha 18). Il re Davide insegnava: “Il nome del Signore dev’essere lodato dall’alba al tramonto.” (Salmi 113.3). Gli scritti vaishnava ribadiscono più volte: “Cantate il santo nome, cantate il santo nome, cantate il santo nome del Signore, perché quest’età di discordia non c’è altro modo, non c’è altro modo, non c’è altro modo per conseguire l’illuminazione spirituale.” (Brihad-naradiya Purana 3.8.126)

La letteratura vaishnava è costellata di elogi del nome di Dio. Riportiamo alcuni esempi:

(“Quanto glorioso è chi usa la lingua per cantare il Tuo santo nome! Anche se proviene da una famiglia di mangiatori di cani è degno di venerazione. Per essere arrivato al punto di cantare il Tuo nome deve aver compiuto austerità e sacrifici vedici, e deve aver maturato tutte le buone qualità dei veri ariani. Se canta il Tuo santo nome dev’essersi bagnato in tutti i fiumi sacri, aver studiato i Veda ed eseguito ogni dovere prescritto.” (Srimad-Bhagavatam 3.33.7))

“Il santo nome di Krishna dispensa con gioia ogni benedizione, perché è Krishna stesso, la culla del piacere. È completo ed è l'essenza di tutte le relazioni spirituali. Non è mai, in alcuna circostanza, un nome materiale, e non è meno potente di Krishna. Essendo identico a Krishna, è per sempre libero dagli influssi della materia.” (Padma Purana 3.21)

Krishna dice infine: “Non dimoro nel regno spirituale, né risiedo nel cuore dello yoghi. Là dove i Miei devoti cantano, o Narada, Io vivo!”

Dato che gli scritti vaishnava pongono così tanta enfasi sul canto del nome di Dio, i praticanti considerano questo canto la loro attività devozionale primaria. È per questa ragione che il japa (canto sottovoce), il kirtan (canto ad alta voce) e il sankirtan (canto collettivo) sono accompagnati da una profonda meditazione e da una grande emozione. Quando perfezionato, il canto conferisce la visione della natura assoluta di Dio. In altre parole, il praticante comprende che non c’è differenza tra nami, il nominato, e nama, il nome. Realizzare la natura assoluta di Krishna e del Suo nome è il cuore del misticismo vaishnava e conduce all’amore per Dio.

 

CANTARE IL MAHA-MANTRA HARE KRISHNA

Le Scritture considerano il maha-mantra Hare Krishna, o “grande canto liberatorio”, la vibrazione sonora più potente, perché racchiude in sé la forza di tutti gli altri mantra. Lo si può esprimere in due modi ben precisi. La prima versione, più conosciuta e significativa, è Hare Krishna, Hare Krishna, Krishna Krishna, Hare Hare/ Hare Rama, Hare Rama, Rama Rama, Hare Hare. La seconda versione, riportata nel capitolo 25 verso 64 della sezione Madhya-lila della Chaitanya-charitamrita (opera medievale e testo fondamentale del Movimento Hare Krishna), è haraye nama krishna yadavaya namaha/ gopal govinda ram shri madhusudana: “ Offro i miei rispettosi omaggi a Sri Krishna, Dio, la Persona Suprema, discendente della dinastia Yadu. Che i miei rispettosi omaggi vadano anche a Gopala, Govinda, Rama e Shri Madhusudana, tutti nomi dello stesso Signore Supremo.”

Di queste due versioni la prima, cioè Hare Krishna, Hare Krishna, Krishna Krishna, Hare Hare/ Hare Rama, Hare Rama, Rama Rama, Hare Hare, è specificamente raccomandata dai Veda per l’era attuale. Lo confermano il  Brahmanda Purana (Uttara-khanda 6.55), la Kalisantarana Upanishad e molti altri testi vedici e post-vedici.

Scomponiamo adesso questo sacro mantra e scopriamo il significato delle sue tre parti costitutive.

Hare si riferisce ad Hari, un nome di Krishna che designa la Sua capacità di rimuovere gli ostacoli sul sentiero percorso dai Suoi devoti. In un senso più esoterico la parola Hare è un vocativo riferito a Madre Hara, ovvero a Srimati Radharani, la divina energia femminile, eterna consorte di Krishna e Sua controparte trascendentale.

Krishna significa “infinitamente affascinante” e si riferisce a Dio nella Sua forma originale. Etimologicamente, la parola krish designa l’aspetto attraente del Supremo, e na significa “piacere spirituale”. Quando al verbo krish è aggiunto il suffisso na abbiamo Krishna, il cui significato è: “Persona assoluta, che dà piacere spirituale attraverso le Sue qualità infinitamente affascinanti.” Secondo la derivazione semantica sanscrita (nirukti) na si riferisce anche alla capacità del Signore di fermare la ripetizione di nascita e morte. Inoltre, krish è un sininimo di sattartha o “totalità dell’esistenza”. Un ulteriore significato della parola Krishna è dunque “Colui che incarna tutto ciò che esiste e può aiutare gli esseri viventi a superare le sofferenze ripetute della nascita e della morte.”

Rama indica sia Balarama (il fratello maggiore di Krishna) sia Ramachandra, un importante avatara del Signore, protagonista del celebre Ramayana. Si dice però che Rama si riferisce anche a Radha Ramana Rama, un altro nome di Krishna il cui significato è “Colui che rende felice Srimati Radharani”.

Il maha-mantra include solo i nomi più confidenziali di Dio, personificando quindi l’essenza del Divino. Come preghiera si traduce così: “O Signore, O energia divina del Signore, vi prego, impegnatemi al Vostro servizio!” L’abnegazione insita in questo mantra –chiedere a Dio di servirLo e non di fare qualcosa per noi– lo pone in una categoria superiore alle migliori preghiere e alle più potenti formule spirituali. Tuttavia, solo un puro devoto può udirlo nella sua forma pura –col proprio “orecchio interno”, celato nell’intimo del cuore.

* Katharine Le Mée, Chant (New York: Bell Tower Publishing, 1994), pp. 28-29.2. 

 

Articolo di Satyaraj das

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